“Orapronobis” – Teatro di figura, perturbante spettacolo privo di spettacolarizzazione

di Tosi Siragusa per tempostretto

Nel solco della Tetralogia del dissenno, curatissimo volume (che ho molto amato), pubblicazione Editoria&Spettacolo, composto da impeccabili testi teatrali del valente Rino Marino, con prefazione di Luigi Lo Cascio e postfazione di Giusi Arimatea, il sublime “Orapronobis”, insieme a “La malafesta” e “Ferrovecchio”, tutti in lingua siciliana, monologo andato in scena per il “Teatro dei 3 Mestieri”, in forma di cunto, con incipit di voci salmodianti e antichi rosari, magistralmente diretto dallo stesso Marino.

Ambientazione per così dire allucinatoria, in quella che nello script è definita “La stanza dell’Eccellenza”, in realtà solo un fantoccio, nei panni altolocati di un prelato, con mitra nera in trono sulla poltrona ecclesiastica, in posizione di tre quarti.

Accanto si staglia una campanella di rame e un Vangelo, sulla sinistra, e a destra un Crocifisso ligneo, listato a lutto.

Il protagonista, l’unico, un eccelso Fabrizio Ferracane, riportato alla voce “Personaggi” quale “un uomo a lutto”, impersona una povera anima con pesanti povere vesti rurali, cappotto, coppola e segno del lutto al braccio…che, mentre le voci di sottofondo vanno a scemare, si getta prostrato ai piedi dell’Eccellenza, la sua faccia letteralmente sulle nobili scarpe.

La Compagnia, il collaudato duo Marino-Ferracane, appunto, ha una volta in più convinto appieno con questa Sukakaifa Produzioni, con prima, nel 2013, come di consueto, c/o il Teatro di Selinunte a Castel Vetrano, e finalista al Premio Rete Critica 2014.

Pièce di rara preziosità, traboccante sì di amarezza e sofferenza in questo Teatro senza Dio, ma che fonda la propria religiosa laicità nell’intento, innegabilmente validamente rappresentato, di dare voce agli ultimi, sempre in bilico equilibristico quali funamboli del Nulla, ma eroicamente scampati all’inferno per trovare dimora in un aldiquà, che è già anticipazione del Purgatorio, ostinata espiazione di un atavico indistinto peccato, mentre attendono la morte.

Il Nostro è, ancora, una figura reietta, alla quale il vernacolo siciliano restituisce capacità di musicale e evocativa primordialità, in uno a immediatezza visiva, che le parole richiamano. Una vita senza storia, una piccola individuale storia, anzi, di giorni disgraziati, che dopo l’invettiva rabbiosa e angosciata contro il Potere (Ecclesiale, nella specie) sordo e indifferente al destino delle creature ai margini, non può che ripiegare – con cambio di scenografia – sui giorni passati, con la memoria a ripercorrere quei momenti… quando la vita si è fatta sopravvivenza, preoccupazione di resistere, tout court, sognando gli orizzonti negati, persi in quella sete di bellezza e di infinito anelata quanto sideralmente irraggiungibile.

Nell’evidenziare che “Il ciclo dell’Atropo”, pur se in lingua italiana, per evidenti assonanze, tematiche, e segnatamente contenutistiche, è stato inserito nel testo della tetralogia in parola, e se ne attende la rappresentazione, e non insieme a “La consegna” e “Lunario”, a comporre la cd “Trilogia italiana”.

Una davvero provvida mise en scene, vicina alla metafisica dechirichiana e alla ribellione Kantoriana, di una esistenza al contempo senza luce e fulgido esemplare di civile resilienza, eccellente rappresentazione – che ha ricevuto il meritato plauso degli spettatori del Mume -scevra di sovrastrutture, minimalista e condotta sapientemente, senza smagliatura alcuna.

 

“Orapronobis” – Teatro di figura, perturbante spettacolo privo di spettacolarizzazioneultima modifica: 2021-08-05T09:08:07+02:00da filmalieno
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