Ferrovecchio – recensione di Francesca Sortino

 XVII Festival di Teatro contemporaneo

teatri in città

Caltagirone, Villa Patti 3-8 agosto 2011

domenica 7 agosto 2011

Francesca e il ferrovecchio

Continuano puntuali le “visioni personali” di Francesca Sortino per Teatri in Città 2011.

 

Una carcassa di bicicletta dal suono di ruggine esce di scena lasciando spazio alla solitudine di due uomini ormai emarginati dalla società perché ridotti in rovina. Fabrizio Ferracane e Rino Marino della Compagnia Sukakaifa di Trapani sono i protagonisti di “Ferrovecchio”, titolo che prende spunto da una bicicletta che si fa portavoce dei sogni inseguiti per lungo tempo in un passato che sembra ormai remoto che ha decretato un profondo cambiamento di Andrea, barbiere fallito che non si riconosce più nel suo nome.

Ad essere in scena è il rifiuto di sé stessi insomma, dopo l’emarginazione da parte di una società che si arroga il ruolo di giudice supremo della vita altrui. Il risultato è una mancanza di fiducia nelle persone che ci stanno accanto che determina un’estrema solitudine dal momento che la mancanza di rifugio nel genere umano conduce alla follia. “Gli esseri umani sono degli animali sociali”, ci ricorda Seneca, e sono creati per aggregarsi tra loro; mancando questa fondamentale fonte di alimentazione del proprio spirito, l’anima si riduce ad un mero essere vegetale in fin di vita. Ciò si scorge dai tratti corrucciati del viso di Andrea, ormai incapace di sorridere se non per l’ingenuità ancora bambina, o forse per un barlume di pazzia che scorge nell’amico per il quale sembra esistere solo lo sconnesso mezzo di trasporto a due ruote il cui cigolio rimanda a tempi lontani.

 

Anche questa sera la sedia di un barbiere è diventata in parte protagonista della storia, metafora della giostra della giovinezza il cui ruotare ti culla in un tranquillo sonno al quale ci si abbandona facilmente perché accompagnato dalle risa che risuonano ormai soltanto nella mente.

Due personalità forse un tempo simili che appaiono del tutto mutate nel profondo delle loro essenze, si scontrano adesso facendo i conti con la dura realtà della vita che ha sottratto loro tutto: per i due vagabondi senza famiglia, la scenografia della sgangherata bottega del barbiere Andrea, diviene scenario tragico in cui queste due personalità contrapposte si fanno compagnia: da una parte fiumi di parole di una mente ingenua o consumata dalla solitudine, dall’altra un muro di insofferenza e silenzio. “Ancora cinque minuti” è l’elemosina di tempo e di amore che l’amico rivolge ad Andrea -apparentemente riluttante, ma mai del tutto in grado di mandarlo via, anche lui bisognoso di un po’ di calore umano – nella cui bottega non si reca più nessuno. Il suo silenzio si contrappone alla facile favella che deve sopportare, ma è un silenzio carico di tensione e di rabbia soffocata per essere stato inchiodato ingiustamente sulla croce della “follia” da un quartiere ormai deserto, dal momento che nessuno oserebbe passare di fronte la bottega del pazzo.

 

La musicalità del dialetto siciliano e scambi concitati di battute fanno di questo spettacolo uno scorcio di vita ilare e divertente; una comicità tuttavia grottesca che va pian piano trasformandosi in quella tragedia che è auspicabile a tutti evitare ma che, paradossalmente, è creata dallo stesso pazzo, folle uomo: la solitudine, dalla quale questi “scarti di umanità” tentano di fuggire a cavallo della bicicletta che trasporta sogni sulla lunga strada incognita della loro esistenza.

 

Ferrovecchio – recensione di Francesca Sortinoultima modifica: 2012-01-06T19:57:00+01:00da filmalieno
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