Orapronobis, recensioni novembre 2014

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Nuovo Teatro Umberto, Lamezia Terme

28 novembre 2014
Teatro Morelli, Cosenza

Compagnia Marino/Ferracane
Associazioni Sukakaifa e TeatrUsica
Orapronobis 
testo e regia di Rino Marino
con Fabrizio Ferracane

(c) Angelo Maggio, Cosenza

 

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Ferracane-Marino e una folla emozione

La disperazione della follia e la follia disperata, la solitudine del disagio e il disagio degli ultimi.

Ora pro nobis contiene molte cose, è il bello dell’arte di cui chi ne fruisce si appropria. Quello che soprattutto trasmette, l’opera teatrale portata in giro per la Calabria dal duo Ferracane-Marino, è l’emozione immensa.

54 minuti di un monologo intenso, in cui Fabrizio Ferracane porta gli spettatori con se, in salite vertiginose e discese a perdifiato, con minuscole pause per riempire d’aria i polmoni. É un nuovo regalo che l’attore di Castelvetrano fa ai calabresi, dopo l’interpretazione del Luciano di Anime Nere. Un legame che si stringe sempre più fra l’interprete e la Calabria che ha riempito le due date dello spettacolo teatrale scritto e diretto da Rino Marino.

Un folle che chiede una preghiera a un prete, un ultimo che chiede attenzione alla pancia gonfia del potere, un disagio mentale che supplica l’inclusione. E, assiso sullo scranno, il prete, il potere, la società restano muti, sordi e ciechi.

E il Cristo dalla Croce assiste allo spettacolo triste del mondo che ha salvato. E il disperato e il pazzo che passano dalle suppliche alle imprecazioni, senza scalfire la pancia del prete, l’ottusità del potere e l’ipocrisia della società.

Implori o urli nessuno ti ascolta e il Cristo dalla Croce non ha nemmeno la forza di dirti che “chi vuole la giustizia se la faccia”.

Ferracane trema e sgrana il rosario della sua tragedia, snocciola i lutti o semplicemente recita i salmi della sua follia; tutto è sospeso fra il sogno e una realtà comunque da incubo.

Non sai se augurare al protagonista la dimensione onirica o la consistenza terrena, perché la follia o la disperazione quasi mai trovano una strada aperta, e l’ultima speranza e la compagnia di un caniceddhu orbu.

Gioacchino Criaco – clicca su questo link per l’articolo online (3 dicembre 2014)

 

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La follia raccontata da Marino/Ferracane

L’autore «Mi sono sempre occupato della diversità, sia studiando dal punto di vista scientifico che da quello teatrale»

Il volto di Fabrizio Ferracane dopo lo spettacolo “Orapronobis” di Rino Marino, andato in scena venerdì scorso al teatro “Morelli” di Cosenza, ha perso i connotati del dolore e della follia che aveva sul palco. Non ci sono più gli occhi sgranati dallo squilibrio, i capelli spettinati dalle troppe botte sceniche. Eppure vive l’ansia da palcoscenico come tutti i grandi attori «Poco prima di andare in scena dico sempre “Ma chi me lo fa fare?”. “Ma chi me lo fa fare?”. Poi appena iniziano i primi sei-sette minuti in cui uno si lascia andare, quelli in cui governa se stesso, inizio a divertirmi, altrimenti che lo faccio a fare questo mestiere?».
La platea del teatro “Morelli” di Cosenza ha accolto con entusiasmo lo spettacolo del regista di Castelvetrano, euforia fomentata dalla presenza in platea di Francesco Munzi regista del film “Anime nere” in cui Ferracane ha recitato il ruolo di Luciano, e dell’attore Peppino Mazzotta. Insieme all’attore il regista e autore del testo Rino Marino.
In che modo si è preparato a questo personaggio?
«Rino mi ha fatto conoscere 3-4 persone con “disturbi” e a Castelvetrano c’è un “personaggio” conosciuto da tutti in paese. Anche con lui ho parlato, mi è capitato di seguirlo senza che mi vedesse. Il mestiere dell’attore è anche quello di “rubare”. La cosa che faccio è che cerco di rendere partecipe ogni parte del mio corpo che è una cosa bella da ricercare. Infilarsi in sudori nuovi, in “pelle umane” diverse, quindi provare a immaginare come può essere la vita di un “meschinazzo” nel senso di pover’uomo.
Si capisce. Non era solo la voce che parlava, lo faceva con tutto se stesso. Le non sta mai dritto, tranne quando c’è il cambio scena, ma dura un attimo.
«Si, oggi mi sono ritrovato in disequilibrio, un disequilibrio che arriva da tutta questa sofferenza. È come se lo colpissero a poco a poco. In “Anime nere” feci questo lavoro fisico. Mi ricordo che passeggiavo sul lungomare di Bianco pensando a Luciano facendo un esercizio che era un semplice movimento di spalle. Un giorno, quando mi guardai allo specchi pensai “Forse Luciano ha questa cosa che sta leggermente curvo”.
Cosa significa per lei fare questo mestiere?
«Se tu fai questo mestiere non devi prendere in giro chi sta davanti a te. Questa è una cosa fondamentale: chi sta lì deve partecipare in tutto. Questo è il mestiere secondo me. Tu devi corromperti per diventare un’altra cosa, per me l’attore è “corruzione”. A me non interessa niente di Fabrizio Ferracane che sta lì. Tu devi diventare un’altra cosa da te. Questa è secondo me una legge e non può essere altrimenti. Questa è la ricerca, la bellezza del lavoro del ricercare, studiare cose che poi arrivi a modellare con il personaggio».
Come è nata la sua collaborazione con Rino Marino?
«Ho incontrato Rino 4 anni fa. Ho visto un suo spettacolo “Scabbia” e mi sono innamorato della sua scrittura, quel tipo di scrittura che tratta di argomenti che a me appartengono molto».
Rino, come mai ha scelto il disagio psichico?
«Sono uno psichiatra, prima che uomo di teatro. È una cosa a me congeniale, quasi naturale. Mi sono sempre occupato della diversità, sia studiando dal punto di vista scientifico che da quello teatrale. Faccio teatro un po’ da quando sono nato. Ho fatto laboratori e poi ho cominciato a lavorare con Carlo Cecchi, non solo da regista, ma anche come attore in giro per l’Italia e poi per l’Europa. Questo è un testo particolare, perché è molto drammatico, tetro, plumbeo. Di solito il mio teatro è un’alternanza di comico e drammatico, c’è questo contraltare che bilancia un po’. Non è un testo consueto. I testi che ho scritto hanno a che fare con il teatro dell’assurdo, occupandosi di questo tema. Renato Nicolini scrisse in una recensione che il mio teatro era una specie di commistione tra il teatro del ‘900 di Beckett e Ionesco e il teatro di tradizione».
Perché è contestualizzato in un ambiente ecclesiastico?
«Di solito non è che mi propongo mai uno scopo, tipo “Voglio scrivere sulla Chiesa piuttosto che su altro”. È nato così. Questo “paziente”, soggetto disadattato, sicuramente un po’ matto, che comincia a delirare e avere allucinazioni, probabilmente perché questi lutti hanno innescato un suo dubbio sulla religione. È come se lui vedesse questa figura del prete che rappresenta un po’ il potere nero della Chiesa. È un frammischiarsi di voci, allucinazioni, sogni, tutto davanti a lui».
Sono stati i lutti che gli hanno fatto perdere la ragione?
«Questo non è così dichiarato. La follia è sempre una concomitanza di eventi».
Quali altri progetti?
«Uno lo stiamo preparando. Quello fatto prima si chiama “Ferrovecchio”, anche quello su soggetti disadattati. Anni fa ho scritto un testo che si intitola “La nave dei lunatici” che parla dell’inquisizione e di streghe. È un testo in lingua italiana molto barocco e denso di tantissimi personaggi. Ha avuto tanti consensi da un punto di vista critico come testo, ma metterlo in scena è un po’ un problema perché ha tanti personaggi».
Lei è ancora psichiatra o è solo regista e drammaturgo?
«Ho fatto teatro terapia con i pazienti. Ho realizzato dei film con pazienti psichiatrici, un cortometraggio e un lungometraggio. Il corto si chiama “Liturgia dei miserabili” e il lungo “Il viaggio di Malombra”. Quest’ultimo vede la partecipazione di Luigi Maria Burruano che è un attore straordinario e molto bravo».

Miriam Guinea – clicca su questo link per l’articolo online (2 dicembre 2014)

 

“La pietra folle” del More

Al teatro “Morelli” di Cosenza la compagnia Marino/Ferracane porta in scena “Orapronobis”, riflessione sul mondo dell’emarginazione psichica

COSENZA In un dipinto del pittore fiammingo Bosch l'”Estrazione della pietra della follia”, un chirurgo è intento a togliere la pietra della pazzia dalla testa di un uomo, convinto che ivi risieda la colpa della sua stupidità. Attorno a essi, un prete e una suora assistono alla scena senza intervenire. L’attore Fabrizio Ferracane con “Orapronobis”, andato in scena ieri al teatro “Morelli”, affronta il tema della follia partendo proprio da «Haiu la petra di la fuddia ‘nta la mirudda», il cervello appunto. Elementi come sofferenza, ma soprattutto pazzia, squilibrio e alienazione di questo spettacolo, scritto e diretto da Rino Marino, hanno permesso a Fabrizio Ferracane di esibirsi in un monologo che è stata creazione di un’interpretazione costante e intensa. Il palco è avvolto da luci soffuse, il sipario è aperto a metà. Una poltrona a sinistra mostra lo schienale al pubblico. Sulla sedia il fantoccio di un prelato, riconoscibile da una mitra, simbolo di dignità ecclesiastica, e campanella sul bracciolo. A destra un’alta croce. Entra in scena sulle voci off di Annamaria La Barbera, Cristina Perrone e Emrelinda Palmeri che recitano come una litania l’ora pro nobis. È tremante, sul viso i segni del dolore e della stanchezza. Indossa abiti più grandi della sua misura, al braccio sinistro e sul petto i segni di un lutto. Ai piedi scarpe alla buona, senza lacci. In mano degli stracci neri che appoggia sulla croce. È in quel momenti che Fabrizio Ferracane inizia a esibirsi in una sorta di “danza della follia” contro un manichino e contro se stesso («Fui vattiatu cu’ l’acqua maliritta», dirà nel delirio).

Due “atti” di cui il delirio è protagonista assoluto. Il linguaggio, dialetto siciliano arcaico. Nella prima cornice la rabbia sembra essere diretta nei confronti di un mondo ecclesiastico, di cui il potere troppo spesso si fa detentore di somme verità a scapito della povera gente.«La vostra predica veni d’un pulpitu chi feti di carogna», e continua con «‘Un è sangu di Cristu, ‘ssu vinu, è sangu di diavulu pi’ li vostri panzi, chi v’addivintassi chiummu ‘nta li vuredda e petra lu pani, si fussiru sangu e corpu di ‘ddu Cristu.», per poi passare da un servilismo vestito di sarcasmo«Pirdunassi eccellenza, si ci rascu  li scarpi cu’ sta varva longa, tri jorna di varva, quantu si chianci un mortu», alla commiserazione di sé, pover’uomo emarginato dalla società «Portu  cimici e fetu di taverna. La testa, scacciatimilla  sta testa ch’havi serpi e gramigna pi’ capiddi e scampa’ a la furca pi’ siminari malaria»«Orapronobis, Eccellenza, orapronobis» è il leitmotiv della disperazione di un uomo vittima della sua stessa follia, pronunciato implorante come se volesse trovare la liberazione che gli necessità. La follia, un peso eccessivo da portare sulle spalle, così pesante che l’attore modifica la sua postura fino a stare in scena per quasi tutta la rappresentazione curvo sulle spalle, e in costante disequilibrio. Le campane che “suonano a morto” e il buio sul palco permettono il cambio scena che introduce al secondo “atto”, in cui «la disgrazia che veni un jornu d’agostu senza aspittata» narra della morte del padre, ucciso dagli avvocati e dalla sifilide,e della perdita del fratello maggiore, “scomparso” con la ninnananna di una filastrocca per bambini strozzata in gola.

La drammaturgia e la costruzione scenica hanno richiami cinematografici che moduleranno gli elementi della mise en scene nel loro farsi. Il montaggio tra la prima e la seconda parte svela che solo quest’ultima è la realtà, mentre l’inizio è un flashback del protagonista, un viaggio negli interstizi della propria mente visionaria, folle, disturbata, in una costante dimensione onirico – allucinatoria di un personaggio che non ha nome.

Miriam Guinea – clicca su questo link per l’articolo online (29 novembre 2014)

 

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Il rosario oscuro snocciolato da Ferracane

“Orapronobis è un dramma psichiatrico, è un soliloquio spacciato per dialogo con una eminenza ecclesiale (viene da pensare ad una sorta di papa nero se si guarda il manichino-sedia realizzato per lo spettacolo che da le spalle al pubblico), che vede in Ferracane un personaggio emarginato dalla società. Messo ai margini dagli altri per le condizioni psicologiche in cui versa e inevitabilmente finito anche ai margini di se stesso per “il lavoro” della sua mente. Il pover’uomo parla e parla molto e, come spesso accade sia nella vita che nel teatro, capita agli “sciocchi”, ai “fuori di testa”, di dire verità scomode. Si trova davanti all’alto prelato e pone mille domande in un siciliano arcaico, analizza la condizione umana e della chiesa. Non ottiene risposte e anche se avesse avuto davanti un altro attore piuttosto che un manichino, la sensazione è che non avrebbe comunque ascoltato una sola parola dall’interrogato. Silenzio e oscurità, sogno e realtà, miseria e marginalità, verità e bugie; sono tanti i duelli concettuali del testo di Marino e che Ferracane recita come un doloroso lamento. Snocciola un rosario di quesiti che portano il protagonista a dover fare i conti con se stesso. Solo, con l’oscurità come unica compagnia.”

Francesco Cangemi – clicca su questo link per l’articolo online (29 novembre 2014)

 

Il Quotidiano del Sud, 27 novembre 2014:

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Orapronobis, spettacolo nato nel 2012, in cui il regista Rino Marino, psichiatra di professione, traccia il profilo di un uomo, una vita fallita e il disagio psichico che divora, che fà i conti con sé stesso. E con la fede, lontano mille miglia da una Chiesa del potere temporale, che predica in un modo e razzola in un altro, che gira lo sguardo di fronte alle guerre e alle dittature che devastano interi Paesi, che ha tradito radicalmente il messaggio dei Vangeli.

La critica lo ha definito un testo straordinariamente incisivo, una scrittura potente che si muove tra invettiva e sofferenza, enfatizzate dall’uso del dialetto siciliano arcaico che si stempera, poco alla volta, nel puro suono. Ancora una bella prova d’attore per Ferracane, emotivamente e fisicamente intensa, ma soprattutto ennesima dimostrazione di un talento che farà parlare di sé ancora per molto tempo.”

Anna Puleo – clicca su questo link per l’articolo online (27 novembre 2014)

Orapronobis, recensioni novembre 2014ultima modifica: 2014-11-15T11:59:53+01:00da filmalieno
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